Siamo in Palestina per portare la nostra solidarietà nei Territori Occupati, per consolidare rapporti con i palestinesi in resistenza contro l’occupazione dello stato israeliano e con quelle realtà che insieme a loro lottano, in Israele, contro la politica folle ed assassina dello stato sionista.
Non siamo pacifisti/e, e siamo convinti/e che all’arbitrarietà del potere le uniche risposte siano l’auto-organizzazione delle lotte e l’autogestion diffusa del territorio. Certamente non andremo a predicare la nostra “verità”, non abbiamo niente da insegnare a nessuno, men che mai a chi, donne e uomini palestinesi, resiste quotidianamente alla prevaricazione dell’occupante.
Da questo punto di vista, ciò che si sta realizzando in Palestina è emblematico di dinamiche più generali che sono all’opera anche da noi. Frantumazione continua dei legami sociali, produzione pianificata di ghetti, privatizzazione di qualsiasi spazio pubblico attraverso occhiute norme disciplinari. Creazione di una sempre maggiore popolazione superflua, da candidare all’iper-sfruttamento, per giustificare l’ulteriore militarizzazione
della società.
L’occupazione dello stato israeliano, la continua espansione delle colonie e l’espropriazione delle terre palestinesi è infatti un processo che, mediante atti amministrativi e continue annessioni militari, sta costringendo ad uno stato di apartheid la popolazione palestinese fuori e dentro i territori occupati. Certamente in maniera più
infame che da noi, ma in una logica comune, la continua produzione di confini e di ghetti dove rinchiudere le “classi pericolose” sono solo alcuni dei meccanismi attraverso i quali si vuole vanificare ogni alternativa allo stato di cose presente.
Per queste ragioni siamo in Palestina, perché, pur nel rispetto delle reciproche differenze,
la quotidiana resistenza all’occupazione è espressione di una lotta comune.