29.05.2011 Francesc Cabré Sánchez
Dopo alcune settimane dall’omicidio dell’attore e attivista politico Juliano Mer-Khamis, i membri del teatro del campo profughi di Jenin sono convinti della possibilità di far sopravvivere il progetto, sul cammino tracciato da Mer-Khamis, e di accrescere l’importanza dell’arte come arma contro l’occupazione.
Sono passati quasi due mesi dal 4 aprile 2011, giorno dell’assassinio di Juliano Mer-Khamis, direttore e fondatore del Freedom Theatre. Creato nel 2006 nel cuore del campo profughi di Jenin, nel Nord della Cisgiordania, il progetto teatrale sopravvivrà alla morte di Mer-Khamis e seguirà il sentiero da lui tracciato. Così dice Eyad Hurani, un giovane di Ramallah che ha trascorso gli ultimi tre anni a Jenin, studiando teatro e trascorrendo il suo tempo con Juliano.
“Quando è morto, ho pensato che non era possibile, che era troppo presto. Ora so che il suo corpo se n’è andato, ma che le sue idee e il suo messaggio resteranno sempre dentro di me”, ha continuato Hurani, che non è tornato a Jenin da quel terribile 4 aprile. “Il campo profughi non è sicuro in questo momento. Sto diventando un attore e voglio lavorare in Palestina e nel Freedom Theatre, ma per adesso non riesco ad andare là, forse per paura”.
L’aiuto regista Adnan Naghnaghiye, che ha lavorato al Freedom Theatre per cinque anni, spalla a spalla con Mer-Khamis, ha spiegato come la scomparsa dell’amico ha colpito il teatro duramente, ma che tutti proveranno a ridargli il prestigio guadagnato negli anni. Naghnaghiye, che vive nel campo profughi, è andato avanti sottolineando che se le attività teatrali sono ferme dal 4 aprile, spera che il Freedom Theatre possa riaprire nei prossimi mesi.
L’opposizione nel campo profughi
“Nessuno può piacere a tutti. E questo è successo anche a Juliano”, ha detto Adnan spiegando l’omicidio di Mer-Khamis e l’opposizione all’interno dello stesso campo profughi al Freedom Theatre. La mamma ebrea di Juliano ha portato il cosiddetto “ vento dell’Ovest” nel teatro e il suo lavoro congiunto tra ragazzi e ragazze non era ben visto da alcuni. Il teatro è stato attaccato alcuni anni fa con delle molotov e alcuni suoi membri hanno ricevuto minacce.
“La cultura chiede tempo e penso che ci sono persone che hanno bisogno di più tempo per capire il significato e l’importanza del teatro”, ha detto ancora Hurani, ricordando che per dieci anni non c’era stato nulla di simile nel campo profughi di Jenin perché tutto era rimasto chiuso dopo che l’esercito israeliano aveva distrutto il centro, iniziato da Arna Mer, la madre di Juliano.
L’arte come arma
“Dobbiamo insistere con il nostro messaggio, non possiamo fermarci se vogliamo cambiare la mentalità della gente”, ha continuato il giovane attore. È convinto che il progetto del Freedom Theatre sia prezioso per il campo profughi perché permette ai bambini di avere “un luogo aperto, sicuro, dove possano esprimere se stessi e quello che vogliono, senza limiti. Il teatro, come forma d’arte, è un’arma potente per inviare il proprio messaggio e uno strumento fondamentale per combattere l’occupazione”. “Ci sono persone – continua Adnan – che ancora credono che la sola via per opporsi ad Israele sia la pistola”.
Eyad Hurani ha concluso spiegando come Juliano gli abbia insegnato a usare l’arte per diventare un attivista politico. “Dobbiamo prenderci il palcoscenico per spiegare e mostrare la nostra situazione. È un’incredibile mezzo di propaganda – ha detto –. L’occupazione israeliana non significa solo guerra, carri armati e prigione. È anche mentale e l’arte ci aiuta a liberare le nostre menti. Non penso che possiamo liberare la nostra patria se prima non liberiamo noi stessi”.