Pubblichiamo questo articolo perchè racconta la storia di tant@ ragazz@ in Palestina.
Il colonialismo sionista si difende ingabbiando le persone e devastando i territori, il futuro della Palestina, i bambini e le bambine, sono i primi target dell’esercito occupante.
Ad Israele non serve neanche una scusa concreta per incarcerare la popolazione palestinese, nell’indifferenza totale, il dispositivo carcerario si è dotato della “detenzione amministrativa” per chiudere in gabbia senza accuse, senza difesa legale e senza tempo limite.
È stato scarcerato il 4 novembre Mazin Zawahreh un ragazzo palestinese di 14 anni di Betlemme, arrestato l’11 settembre scorso nei pressi del checkpoint di Beit Jala, a Sud di Gerusalemme.
Quel giorno Mazin si trovava con tre amici: stavano giocando a pallone quando sette soldati israeliani, al vederlo, lo hanno aggredito colpendolo col calcio del fucile. Lo hanno messo in ginocchio, gli hanno strappato i vestiti, legate le mani e coperti gli occhi con la sua stessa maglietta, dopodiché lo hanno picchiato per due ore. Prima che lo portassero via su una jeep, un conoscente, vedendo il ragazzo in quelle condizioni, ha avvisato i familiari, che altrimenti non avrebbero saputo niente dell’avvenuto arresto del figlio.
Mazin è stato portato nel carcere israeliano di Mascobia, a Gerusalemme, dove è stato tenuto ed interrogato per ventinove di giorni con l’accusa di aver cercato di uccidere i soldati con un coltellino rinvenuto nella sua tasca. Il ragazzo è stato sottoposto ad un trattamento inumano: minacciato e torturato, tenuto in uno stanzino sottoterra, legato al letto in una posizione forzata che gli ha provocato seri problemi respiratori. Questo trattamento brutale era finalizzato ad ottenere una dichiarazione di colpevolezza rispetto alle accuse mossegli contro, dichiarazione che nonostante tutto Mazin ha avuto la forza non firmare.
I genitori non sapevano neanche se il figlio fosse vivo o morto, finché non li hanno chiamati dal carcere per dirgli di andarlo a visitare a Gerusalemme, cosa impossibile in quanto sprovvisti del permesso per passare il checkpoint. Saputo che il figlio era vivo, i genitori hanno intrapreso ogni via legale per strapparlo dalla prigione; si sono rivolti ad una associazione di avvocati, Defence for Children International. Il legale che ha preso in carico la causa parla sia ebraico che arabo, elemento importantissimo in quanto i processi presso la Corte Israeliana vengono svolti interamente in ebraico e i traduttori ufficiali semplificano le traduzioni.
Dopo la prima udienza, alla quale i familiari non hanno potuto assistere, il ragazzo è stato trasferito nel carcere di Offeq, un carcere per criminali comuni, nel quale dopo aver subito ripetutamente percosse e minacce è stato tenuto in isolamento, privato di luce e di aria, costretto a dormire per terra, in condizioni che hanno aggravato i suoi problemi respiratori. Qui ha subito anche bruciature in tutto il corpo, bruciature che sono tuttora visibili.
Nella seconda udienza, conclusasi pochi giorni fa, finalmente i genitori hanno potuto vedere il figlio e constatarne lo stato psico-fisico provato da quasi due mesi di carcere. Al mostrare le ferite provocate dalle bruciature, la Corte ha risposto seccamente che non era di sua competenza, delegando la responsabilità all’amministrazione del carcere. Colpiscono le parole del padre che, rivolgendosi alla Corte, ha espresso tutto il proprio dolore pregandogli di uccidere subito il figlio, anziché farlo giorno per giorno.
Il secondo processo si è risolto con la richiesta della Corte di un pagamento da parte dell’accusato di 20.000 shekel, circa 4.000€, una prima tranche di 10.000 come cauzione di uscita e una seconda da versare a fine processo. Il 4 novembre è stato comunicato alla famiglia che Mazin è stato liberato e lasciato vicino al checkpoint di Tul Karm, a un centinaio di chilometri da Betlemme. Ma il processo resta aperto, la prossima udienza è fissata per il 22 novembre e il ragazzo rischia nuovamente di essere incarcerato.
La cosa più aberrante di tutta questa storia è il trattamento che le autorità israeliane riservano ai giovanissimi palestinesi, vedendo dietro ognuno di loro non un giovane che si affaccia alla vita ma soltanto un pericoloso terrorista. Torturare un ragazzo di 14 anni, isolarlo, sottoporlo a condizioni inumane, negargli ogni diritto: a cosa mira tanta brutalità se non a cercare di annichilire la speranza, la tranquillità, la voglia di lottare, che è dentro di lui?
Yallah zeituna!!