di Ali Rashid per il Manifesto
La rapida e inarrestabile spirale di violenza, che questa volta vede contrapposti palestinesi ad altri palestinesi, rappresenta forse già l'inizio dell'incubo della guerra civile, che la maggioranza dei palestinesi da tempo avverte e teme. Da sempre, esistono tecniche consolidate ed efficaci per trascinare un popolo in scenari come questo. Sta avvenendo lo stesso in Iraq e in Libano, dove si ripropone un'esperienza già vista e durata per più di 8 anni. L'origine di questi scenari non è un'improvvisa follia collettiva della popolazione, che anzi è costretta a impazzire suo malgrado, ma l'opera di pochi, sempre sostenuta da forze organizzate e da un contesto regionale o internazionale che la favorisce. Anche l'Italia in passato ha conosciuto la strategia della tensione, i cui obiettivi vengono raggiunti restando formalmente avvolti nel mistero, grazie a operazioni clamorose che suscitano forte paura, indignazione e desiderio di vendetta, come le stragi di gente comune e l'uccisione dei bambini.
L'attentato a un ministro, poi a un giudice e infine a un capo di governo, tutto nel giro di tre giorni, indicano chiaramente che qualcuno ha preso la decisione di provocare una guerra civile in Palestina. Israele ha forti interessi a questo riguardo e lo stesso si può dire di alcuni settori della vecchia guardia dell'Anp che hanno perso definitivamente il potere e la possibilità di recuperarlo. La guerra civile sembra oggi l'unico modo per far cadere il governo di Hamas e aprire la strada non a una soluzione politica ma al caos a tempo intedeterminato, che esonera Israele e l'amministrazione americana dall'impegno in un processo che miri a quella soluzione politica del conflitto invocata ormai da tutta la comunità internazionale e auspicata anche dall'ultimo rapporto Baker-Hamilton. Stavolta nessuno può accusare Hamas di sparare contro il corteo del suo primo ministro, di averne ferito il figlio e ucciso la guardia del corpo, né di essere responsabile del caos, perché l'ordine pubblico è un compito che spetta al governo di Hamas. I responsabili vanno quindi cercati altrove. È clamorosa la dichiarazione del portavoce del Dipartimento di stato americano secondo il quale Abu Mazen avrebbe impedito l'ingresso di Haniyeh nella Striscia di Gaza con i fondi destinati all'amministrazione palestinese, dopo che il ministro degli esteri israeliano aveva rivendicato per sé questa responsabilità. La dichiarazione indebolisce ulteriormente la posizione di Abu Mazen il giorno prima dell'atteso messaggio in cui chiarirà alla nazione le proprie intenzioni, una posizione che presuppone la neutralità del presidente, negli ultimi mesi attivo nel ruolo di equilibratore tra fazioni a cui non appartiene. Con questa dichiarazione, si riduce lo spazio di neutralità in cui Abu Mazen sembrava muovere i suoi passi e si rende la situazione interna più pericolosa per la mancanza di qualsiasi punto di riferimento che rappresenti una garanzia istituzionale al di sopra delle parti.
L'atteggiamento americano è coerente con l'ultima decisione presa dal Congresso di vietare ogni contatto con Hamas e di chiudere la porta in faccia al suo governo, ma l'ultimo viaggio di Haniyeh ha rotto, anche se parzialmente, l'isolamento di Hamas nel mondo arabo e ha reperito fondi che dimostrano la possibilità di fare a meno degli aiuti occidentali. Credo sia questo il motivo dell'accelerazione del processo di destabilizzazione e del serio pericolo di una guerra civile, alimentata da potenze regionali e internazionali arrivate alla resa dei conti tra di loro, anche in Palestina. Oggi Abu Mazen deve dimostrare in prima persona di essere estraneo al massacro che, purtroppo, sembra vicino e scoprire finalmente le proprie carte di fronte al popolo palestinese. Molti in Palestina credono ancora nel suo senso di responsabilità, nell'esperienza che gli consente di capire meglio di chiunque altro che le potenze internazionali o regionali usano i loro strumenti e li scaricano non appena il loro compito è esaurito. E per la stessa esperienza, Abu Mazen sa di poter contare ancora sulla maturità e determinazione che il suo popolo, come nessun altro al mondo, ha dimostrato in 60 anni di immani sacrifici.
L'attentato a un ministro, poi a un giudice e infine a un capo di governo, tutto nel giro di tre giorni, indicano chiaramente che qualcuno ha preso la decisione di provocare una guerra civile in Palestina. Israele ha forti interessi a questo riguardo e lo stesso si può dire di alcuni settori della vecchia guardia dell'Anp che hanno perso definitivamente il potere e la possibilità di recuperarlo. La guerra civile sembra oggi l'unico modo per far cadere il governo di Hamas e aprire la strada non a una soluzione politica ma al caos a tempo intedeterminato, che esonera Israele e l'amministrazione americana dall'impegno in un processo che miri a quella soluzione politica del conflitto invocata ormai da tutta la comunità internazionale e auspicata anche dall'ultimo rapporto Baker-Hamilton. Stavolta nessuno può accusare Hamas di sparare contro il corteo del suo primo ministro, di averne ferito il figlio e ucciso la guardia del corpo, né di essere responsabile del caos, perché l'ordine pubblico è un compito che spetta al governo di Hamas. I responsabili vanno quindi cercati altrove. È clamorosa la dichiarazione del portavoce del Dipartimento di stato americano secondo il quale Abu Mazen avrebbe impedito l'ingresso di Haniyeh nella Striscia di Gaza con i fondi destinati all'amministrazione palestinese, dopo che il ministro degli esteri israeliano aveva rivendicato per sé questa responsabilità. La dichiarazione indebolisce ulteriormente la posizione di Abu Mazen il giorno prima dell'atteso messaggio in cui chiarirà alla nazione le proprie intenzioni, una posizione che presuppone la neutralità del presidente, negli ultimi mesi attivo nel ruolo di equilibratore tra fazioni a cui non appartiene. Con questa dichiarazione, si riduce lo spazio di neutralità in cui Abu Mazen sembrava muovere i suoi passi e si rende la situazione interna più pericolosa per la mancanza di qualsiasi punto di riferimento che rappresenti una garanzia istituzionale al di sopra delle parti.
L'atteggiamento americano è coerente con l'ultima decisione presa dal Congresso di vietare ogni contatto con Hamas e di chiudere la porta in faccia al suo governo, ma l'ultimo viaggio di Haniyeh ha rotto, anche se parzialmente, l'isolamento di Hamas nel mondo arabo e ha reperito fondi che dimostrano la possibilità di fare a meno degli aiuti occidentali. Credo sia questo il motivo dell'accelerazione del processo di destabilizzazione e del serio pericolo di una guerra civile, alimentata da potenze regionali e internazionali arrivate alla resa dei conti tra di loro, anche in Palestina. Oggi Abu Mazen deve dimostrare in prima persona di essere estraneo al massacro che, purtroppo, sembra vicino e scoprire finalmente le proprie carte di fronte al popolo palestinese. Molti in Palestina credono ancora nel suo senso di responsabilità, nell'esperienza che gli consente di capire meglio di chiunque altro che le potenze internazionali o regionali usano i loro strumenti e li scaricano non appena il loro compito è esaurito. E per la stessa esperienza, Abu Mazen sa di poter contare ancora sulla maturità e determinazione che il suo popolo, come nessun altro al mondo, ha dimostrato in 60 anni di immani sacrifici.