ABED’S LAND

01-11-2009

Oggi, come promesso, incontriamo Abed, un contadino
che vive su una collina dentro una casa ricavata nel tufo e coperta
di pietre a secco, non per scelta ma per difendere la sua proprietà
dai quattro insediamenti sionisti che la circondano e che la
vorrebbero espropriare per completare la loro opera e congiungersi.

 

Abed rivendica il diritto a coltivare anche
attraverso la documentazione di proprietà che risale sino al periodo
dell occupazione turca; altri contadini, non potendo esibire nessun
documento, hanno subito l’esproprio senza possibilità di ricorrere
alle vie legali, poiché rappresentate da Israele stesso.

Il luogo è accessibile da due punti: dall’alto,
passando per la città di Beit Sahur, si arriva ad una strada
sterrata,interrotta dai coloni con macigni irremovibili che rendono
impossibile l’arrivo con mezzi agricoli e di rifornimento.

Il secondo accesso, interrotto dalla stessa
barricata, passa anche davanti al check-point di ingresso
all’insediamento posto sulla collina di fronte; questo è l’accesso
meno frequentato nonostante conduca proprio di fronte alla scalinata
di terra battuta che porta ai terrazzamenti ed alla casa.

Di buon ora siamo arrivati attraverso il secondo
ingresso, dieci persone e cinque piante – tre ulivi, un limone ed un
noce, accuratamente selezionati.

Il pomeriggio precedente, Abed ci aveva chiesto di
aiutarlo a pavimentare a secco lo spazio antistante la casa, circa 25
mq. Appena arrivati abbiamo scelto di dividerci in due gruppi: alcuni
hanno cominciato a piantare gli alberi, altri a trasportare le lastre
per la pavimentazione dal ciglio dello sterrato.

Per disporre le lastre abbiamo dovuto livellare il
terreno e, procedendo a rilento, abbiamo avuto bisogno del sostegno
di due ragazzi del campo di Dehisheh per iniziare a prenderci la
mano. Il peso delle lastre ha reso problematico il trasporto e la
disposizione in pendenza, per garantire il deflusso dell’acqua
piovana, non è stata di facile realizzazione.

Il secondo gruppo si è diretto ai terrazzamenti già
lavorati da Abed, in cui erano presenti altri ulivi e alberi da
frutto molto giovani, piantati da scolaresche e volontari
internazionali come espressione di solidarietà.

Nel terreno argilloso l’operazione di trapianto è
stata rapida così da poter costituire un’unico gruppo per il
trasporto delle pietre per la pavimentazione, nonostante questo, per
pranzo eravamo riusciti a completare poco più di un terzo del
lavoro.

In un’atmosfera surreale, seduti intorno al tavolo
in questa valle circondata da insediamenti e consumando il pranzo
preparato da un caro amico di Abed, cominciavamo a nutrire qualche
dubbio e pensavamo di riuscire a lastricare solo metà dello spazio.

Inaspettatamente, dopo qualche litro di caffé, the
alla menta e il solido arrivo di un altro ragazzo dell’Ibdaa center,
siamo riusciti a lastricare tutto lo spazio, fatta eccezione per un
piccolo angolo.

Al calar della sera, verso le 5 del pomeriggio,
abbiamo ripreso la strada di casa, promettendoci di ritornare il
martedì per completare il lavoro.

La forza di Abed è stata la nostra, la sua
dignità è lo specchio della resistenza di migliaia di contadini
palestinesi che resistono, sulle proprie terre, contro la feroce
espansione delle colonie d’Israele.

 

 

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