L’assalto alla Mavi Marmara. Il racconto di Manuel

Fonte: Infoaut
L’attacco alla Mavi Marmara, le uccisioni cruente, le accuse all’Ihh. Testimonianze dirette e parte di un video inedito

Verso il 10 luglio seguo Manolo a Istanbul assieme ad Andrea, un amico
cameraman. Ci stiamo recando in Turchia per partecipare alla conferenza
stampa del nascente gruppo “Freedom Flotilla Press”, composto da
giornalisti e freelance presenti sul convoglio umanitario. L’obiettivo
sotteso alla riunione è quello di sventare ulteriori ricostruzioni
fittizie, smascherare ove possibile narrazioni tendenziose, lottare
assieme per ottenere la restituzione delle attrezzature e dei materiali
video sequestrati dall’esercito israeliano, in spregio alla libertà di
stampa. Non da ultimo mantenere viva la memoria di quanto accaduto. In
realtà viaggiamo anche per completare il lavoro iniziato ad Atene, prima
della partenza della flottiglia, che avrebbe dovuto concludersi a Gaza
filmando i vari momenti e personaggi della missione umanitaria. Manolo
ha con sé una lunga lista di persone che intende intervistare:
passeggeri della Marmara, membri dell’equipaggio, organizzatori della
spedizione.



La traversata in direzione di Gaza l’avevamo trascorsa a bordo della
Sfendoni, conosciuta anche con il nome di “8000”, incrociando la Marmara
soltanto il 29 maggio al punto prestabilito per l’incontro di tutte le
imbarcazioni, che arrivavano scaglionate procedendo a velocità molto
diverse l’una dall’altra. Prima di allora non l’avevamo mai vista. La
Sfendoni e la Eleftheri Mesogious erano salpate dal porto di Atene, la
flotta turca proveniva da Istanbul e Antalya.

La mattina del 31, dopo le prime fasi dell’attacco, quando i gommoni ci
sfrecciavano accanto pieni di soldati urlanti e si avvicinavano
progressivamente alle fiancate delle navi, non era stato possibile
osservare a lungo quanto avveniva a bordo delle altre imbarcazioni.
Oltre ad essere repentinamente impegnati nella difesa passiva della
Sfendoni, gli attivisti, e a documentare l’aggressione, gli operatori,
le varie navi s’erano distanziate progressivamente l’una dall’altra,
giungendo in fine a perdere il contatto visivo. L’opportunità di
ricostruire parzialmente la vicenda s’è presentata solo in seguito, in
carcere, la giornata del primo giugno, dopo che nella notte le guardie
avevano condotto nel nostro braccio una cinquantina di passeggeri
turchi. Tra loro solo un paio parlavano inglese e s’adoperavano come
traduttori per i compagni. Le notizie, ancora confuse e un po’ emotive,
delineavano già un quadro abbastanza chiaro, confermato in larga parte
da tutte le testimonianze rilasciate alla stampa dai passeggeri nelle
settimane successive. Ad Istanbul, durante la nostra permanenza tra l’11
e il 18 luglio, sono emerse ulteriori conferme e informazioni.

L’IHH

Uno dei passeggeri che ci preme maggiormente incontrare è Huseyin Oruc,
membro del consiglio di amministrazione dell’ IHH, ONG turca che ha
curato l’allestimento della Mavi Marmara. Lo raggiungiamo in ufficio,
nel quartiere Fathi, a ridosso dell’omonima moschea. Andiamo rapidamente
al sodo toccando quello che a prima vista sembra un tasto dolente.

Nei giorni successivi all’aggressione, l’IHH è comparso frequentemente
sui giornali internazionali accostato ad Hamas, accusato di intrattenere
legami con il partito islamico e essere un’organizzazione
fiancheggiatrice di gruppi terroristici, riconosciuta come tale in
Europa e negli Stati Uniti. Addirittura una recente disposizione del
governo Merkel ha messo al bando l’IHH sul suolo tedesco, chiudendo la
sede a Francoforte, confiscandone beni e sito internet.

Huseyin storce il naso e abbozza un mezzo sorriso tra l’amaro e il
compassionevole. C’è un grosso errore, ci dice, che si nutre di falsità e
malafede, e mette in luce un aspetto fondamentale dei conflitti
moderni: la guerra dell’informazione. Nel caso specifico delle accuse
verso l’IHH tutto si gioca sul fraintendimento, più o meno consapevole.
Il pretesto lo offre l’omonimia con un’organizzazione tedesca, nata nel
1992 come costola europea dell’IHH turco. All’epoca l’ex Jugoslavia era
travagliata dal conflitto etnico e versava in uno stato di guerra “tutti
contro tutti”. L’ONG avrebbe voluto portare aiuti alla popolazione ma
si scontrava con una legge che gli impediva di operare oltre i confini
nazionali, rendendo necessario questo escamotage per condurre missioni
all’estero. In seguito, terminato il conflitto nei Balcani, le due
organizzazioni si allontanarono progressivamente, per diversità di
obiettivi, finendo col separarsi nel 1997 quando l’IHH tedesco iniziò a
radicalizzarsi. Da un pezzo ormai, puntualizza Huseyin, le due
organizzazioni non hanno in comune che il nome.

E’ improbabile che l’intelligence israeliana non lo sappia e che di
rimando non lo sappiano i media israeliani e quella parte di stampa
partigiana per lo stato di Israele che con esso mantiene buoni canali
informativi. Eppure la notizia che numerosi giornalisti rilanciano è
proprio quella di un IHH genericamente amico dei “terroristi” e la prova
addotta è il provvedimento tedesco contro di esso [ulteriori: 12].
Addirittura Fiamma Nirenstein (Pdl), vicepresidente della Commissione
Esteri della Camera, intraprende un’iniziativa per spingere verso
l’inserimento della ONG turca nella lista nera dell’Unione Europea.

La storia di Huseyin mi convince, però decido di scavare più a fondo per
trovar conferme. Inizio una piccola ricerca in rete e nel giro di pochi
minuti salta fuori qualcosa di interessante. Sono un pugno di agenzie e
un paio di articoli più approfonditi che confermano la sua versione: l’IHH bandito dalla Germania è l’omonima organizzazione di Francoforte. Di più, trovo un’intervista al ministro degli interni tedesco in cui chiarisce la distanza tra le due ONG e la loro totale mancanza di rapporti.

Mi sorprendo a riflettere su Fiamma Nirenstein, sui giornalisti che
hanno rilanciato la notizia glissando su questo dettaglio [1]. Per lo
meno, penso, danno prova di essere malamente informati.

Tornando all’ intervista, l’IHH turco, ci spiega, è un’associazione che
lavora da lungo tempo sulle emergenze e nelle zone di guerra, con
presenze in Africa, nei Balcani, ad Haiti dopo il terremoto, a L’Aquila
nei giorni seguenti il 6 aprile 2009, a New Orleans dopo il passaggio
dell’uragano Katrina, e in Palestina.

Ovviamente, aggiunge Huseyin, l’IHH ha rapporti con Hamas. Operando a
Gaza, dove l’amministrazione è gestita dal partito islamico, come
potrebbe non relazionarsi? Organizzare una distribuzione di aiuti,
installare un progetto umanitario, domandare una qualsiasi
autorizzazione per esso o espletare una pratica burocratica comporta
automaticamente un’interazione con i funzionari del governo. In questo
non si rileva alcuna differenza con il modo di agire delle Nazioni Unite
e di ogni altra entità umanitaria presente nella Striscia. Non si
tratta di una scelta, ma d’una contingenza.

L’attacco alla mavi Marmara

Finiamo l’intervista, usciamo dall’ufficio e incontriamo Iara Lee, la
regista Brasiliana di origini coreane che era imbarcata sulla nave
turca. Anche lei è a Istanbul per la conferenza stampa. Ci eravamo gia
visti in un paio di occasioni, tra cui il giorno prima nei magazzini
dell’IHH dove sono stati raccolti quei bagagli che Israele aveva
infilato alla rinfusa nelle stive degli aerei che ci rimpatriavano,
rimasti in gran parte senza proprietario. Nessuno di noi aveva rinvenuto
nulla, rovistando tra quei mucchi di borse, panni ed effetti personali
miscelati apposta dai militari.

Siamo nella hall del palazzo occupato dall’IHH. Iara è lì perché deve
recarsi all’ufficio “media” dell’ONG per copiare materiale d’archivio
relativo alle loro missioni. Si ferma 10 minuti con noi, che
dimentichiamo il pranzo e intavoliamo una conversazione sul possibile
destino del nostro girato. Che fine avrà fatto dopo il sequestro? Iara
ci rivela come pezzi di quei video siano stati utilizzati dall’esercito
israeliano e riconosciuti qualche settimana più tardi su youtube da chi
li aveva filmati, scioccato di vederli on line estrapolati dal proprio
contesto. Rimaniamo colpiti, ma nemmeno troppo. Salutata Iara ci
incamminiamo, continuando a discutere tra noi della questione, cercando
di mettere insieme quanto appreso da altre conversazioni con operatori e
attivisti presenti sul ponte della Marmara.

Immediatamente dopo l’attacco, l’esercito israeliano rilascia le prime
dichiarazioni sulla sanguinosa operazione, affermando d’esser stati
costretti ad aprire il fuoco per difendere i propri militari attaccati.
Gli attivisti vengono accusati di violenze intenzionali e d’aver sparato
per primi contro i soldati. A riprova, l’esercito pubblica su youtube
filmati che ritraggono i passeggeri intenti a fabbricarsi bastoni
tagliando le ringhiere della nave, mostrano una cesta di fionde,
includono una carrellata su un tavolo su cui giacciono coltelli da
cucina, asce di bordo, temperini svizzeri multiuso e scene accuratamente
selezionate dalle fasi cruente dell’attacco [2]. Quelle immagini
provengono dai materiali rubati ai giornalisti presenti a bordo, dal
sistema a circuito chiuso della nave, e in parte dai filmati realizzati
dall’esercito stesso con visori notturni a infrarossi. Un controllo sul
montaggio dei materiali operato dall’esercito non è stato ovviamente
possibile.

Ormai camminiamo da un po’. Ci sediamo al tavolo di una bettola dove
cucinano bene. Con il proprietario, kurdo, siamo diventati amici e
spesso discutiamo a lungo. Non conosce molto l’inglese e la
conversazione si nutre di una vivace gestualità.

Mentre aspettiamo che si cuocia il pranzo, proseguiamo nell’analisi del
blitz e della presunta sparatoria contro gli elicotteri. Dei bastoni [3]
e delle fionde, contro uno dei più potenti eserciti al mondo, è quasi
ridicolo parlarne. A parti invertite lo sintetizziamo così: David contro
Golia.

A bordo della mavi Marmara non risulta che i soldati abbiano trovato
altro se non quanto sopra descritto. Da parte loro le autorità turche
attestano l’assenza di qualsivoglia arma da fuoco sulla nave, sottoposta
a serrato controllo prima della partenza. L’attacco, ricostruito con
numerose testimonianze, ha un andamento diverso rispetto alla versione
dei militari. Huseyin e gli altri interpellati confermano come da subito
gli elicotteri abbiano mitragliato il ponte, causando i primi morti e
feriti. In un secondo momento da un solo elicottero si calano i tre
famosi militari, che nelle immagini circolate vengono catturati dai
passeggeri, malmenati e disarmati. Il dubbio che aleggia nei racconti è
sempre lo stesso. L’azione è stata condotta con forze imponenti e un
congruo numero di uomini: come mai allora vengono calati
contemporaneamente solo 3 militari, su un ponte brulicante di nemici di
cui non si sa se siano armati e come reagiranno? E’ difficile credere
che si tratti di un errore da parte di chi ha diretto le operazioni, e
tutti sono concordi nel sospettare che siano stati mandati
coscientemente allo sbaraglio, come pretesto, sperando che esplodessero
violenze onde giustificare in seguito le uccisioni.

Prendere il controllo dell’imbarcazione o fermarla, d’altro canto, era
relativamente semplice. Le fotografie della Marmara mostrano una
struttura rialzata sopra al ponte della nave. Si tratta della zona in
cui è ubicata la cabina del capitano con i comandi. E’ rialzata rispetto
al ponte, e dotata di uno spazio antistante. Sarebbe stato sufficiente
calarvi un piccolo gruppo di soldati, raggiungendo il medesimo risultato
senza spargimento di sangue.

L’ultimo pensiero, prima di distrarsi con il pranzo, torna ai tre
malcapitati penzolanti dagli elicotteri e agli attivisti che li
immobilizzano. Una volta disarmati i tre sono condotti nell’infermeria
della nave e medicati [4] , prima di essere rispediti tra le fila dei
propri commilitoni, che in quei pochi minuti avevano gia preso
stabilmente posizione sul ponte. Cosa impediva agli attivisti di
utilizzare contro di essi le loro stesse armi, o di adoperarle per
sparare agli elicotteri? Cosa gli impediva di usare una delle granate
dei soldati, togliere la spoletta e gettarla di sotto sui gommoni
carichi di militari? Perché hanno invece hanno gettato in mare quelle
armi?

Feriti, autopsie e proiettili

Con il passare dei giorni sono davvero tante le nuove conoscenze e
scopriamo che l’aver vissuto un simile evento, sebbene su navi diverse,
ha sviluppato un deciso senso di gruppo. Tutti si dimostrano
estremamente disponibili e condividono senza riserve i ricordi
dell’evento. Non sempre è facile. Per qualcuno si tratta quasi di una
terapia: raccontare per dar luogo alla catarsi e liberarsi del peso
opprimente di aver visto morire gli amici al proprio fianco. Per altri è
più difficile. C’è chi, pur acconsentendo a parlare, si sente
esulcerato rivivendo le scene di quella notte. Ognuno collabora come può
e si fa in 4 per agevolare il nostro lavoro di raccolta d’informazioni.

Siamo ormai agli sgoccioli della nostra permanenza. Andrea ed io siamo
impegnati nel back up di quanto registrato, mentre Manolo continua a
telefonare a destra e manca per un contatto con il medico che ha
condotto le autopsie sui cadaveri. E’ una settimana che siamo lì lì per
ottenere l’appuntamento ma per qualche motivo, alla fine, salta sempre.
Serve un permesso speciale del governo che tarda ad arrivare. Il medico
ha ricevuto l’incarico direttamente dal governo turco e per concederci
l’intervista aspetta un nulla osta che non arriva. Siamo scoraggiati.
Per il nostro reportage video è molto importante avere una testimonianza
tecnica sulle autopsie. Conoscere le traiettorie dei proiettili, la
tipologia delle ferite, il loro numero, può chiarire aspetti rilevanti
di quei tragici minuti sul ponte della Marmara.

Siamo un po’ abbattuti quando Humid, dell’ufficio produzioni televisive
dell’IHH, ci comunica che ha un contatto con un altro medico, che ha
letto le autopsie e che era imbarcato sulla nave. E’ un’ottima notizia.
Accettiamo subito di raccogliere la testimonianza e fissiamo
l’appuntamento un paio d’ore più tardi.

Incontriamo il dr. Mevlit Yurtseven, primario del reparto di Anestesia e
Rianimazione dell’ospedale Avicenna, alla prima periferia di Istanbul,
nel proprio ufficio all’interno della struttura ospedaliera. Il suo
lavoro sull’imbarcazione, inizia a raccontare, consisteva nel dirigere
la vita medica, coordinando i professionisti dell’infermeria. Il kit
tecnico e i medicinali caricati erano quelli abituali, necessari per far
fronte ai semplici malanni che un viaggio solitamente comporta. Il
bisogno di farmaci specifici o di unità da campo attrezzate per
interventi chirurgici non era stato preso in considerazione, poiché non
ci si aspettava questo genere di attacco. L’organizzazione aveva
esaminato ogni possibile scenario, dal muro di navi militari per
stoppare l’avanzata della flottiglia, all’abbordaggio in alto mare. Ma
confidava in un uso moderato della violenza, quel tanto sufficiente a
raggiungere lo scopo. La carenza di attrezzature mediche con cui
prestare soccorso ai feriti colpiti dalle pallottole è evidente nel
filmato inedito che abbiamo fortunosamente recuperato. Nelle immagini i
corpi di alcuni passeggeri semi-incoscienti giacciono a terra su cartoni
insanguinati. Le bottiglie di flebo sono rette in mano dai compagni di
viaggio, in piedi accanto a loro.

Mevlit nota come l’età media dei soldati fosse bassissima, ipotizzando
si trattasse di reclute e non di militari con una più lunga esperienza.
Il loro comportamento conferma indirettamente l’inadeguata preparazione
ad un’azione del genere. Sulla barca tutti, eccetto i soldati, hanno i
nervi più che saldi. Ce li hanno gli attivisti sul ponte, lucidi al
punto da non cadere nella trappola di usare le armi sottratte ai tre
prigionieri, e dimostrano di averli il resto dei passeggeri, che
attendono seduti a gruppi sotto coperta l’arrivo degli israeliani, come attestano i filmati della regista Iara Lee.

Diversamente i soldati israeliani sono molto agitati, quasi
terrorizzati, con un estremo bisogno di tenere tutto sotto assoluto
controllo. Il medico ricorda come ad ogni porta si piazzassero almeno in
2 o 3 [5], tenendo sotto tiro gli attivisti bloccati a terra, e urlando
ad ogni minimo movimento. Sul ponte, intanto, i feriti giacciono a
terra ignorati dai soldati. Dalla sua posizione Mevlit può vederli e li
sente gemere. Vorrebbe prestar soccorso ma gli viene proibito. Tenta
ugualmente di alzarsi, ignorando il divieto e confortato dal pensiero
che gli israeliani lo sanno essere un medico. Il soldato che gli sta
d’innanzi urla, aizzandogli contro il cane [6] che tiene al guinzaglio,
costringendolo a sedersi. Lo minaccia, dicendo che al prossimo movimento
lo farà azzannare dall’animale. Passa diverso tempo prima che Mevlit
veda i medici israeliani iniziare l’opera di soccorso. Il ricordo è
scioccante, tanto che deve alzarsi in piedi, gesticolando energicamente
con le mani durante la narrazione. I medici militari sono brutali,
aggiunge, agiscono senza troppi riguardi per la condizione dei feriti
che vengono in fine caricati sulle barelle, semi-incoscienti, con le
mani legate strette dalle fascette di plastica.

Lo lasciamo prendere fiato, stemperando la tensione nel bicchiere di tè
appena giunto dalla cucina dell’ospedale. Quando mostra di aver placato
l’emozione proseguiamo nell’intervista e Manolo pone una domanda sulle
autopsie, se le ha lette e cosa ne deduce.

Risponde di averle visionate e ci illustra brevemente come i fori delle
pallottole siano un po’ ovunque sui corpi, sparate da angolazioni
diverse: dall’alto, da altezza d’uomo, e a distanze differenti. Alcuni
feriti presentano fori che provengono dalle prime raffiche, sparate
dall’elicottero, e in aggiunta altri di pallottole sparate da distanze
ravvicinate, che dimostrano come siano poi stati ulteriormente presi di
mira dai soldati sul ponte. Furkan, il più giovane dei morti, appena 19
anni, è uno di questi. La sua autopsia e l’analisi delle ferite urlano
che chi gli ha sparato aveva la chiara intenzione di uccidere.

Un altro dato interessante, appreso in precedenza e di cui chiediamo
conferma, è l’uso di pallottole speciali, esplosive. Mevlit non può
confermare nello specifico che genere di pallottole fossero, ma ammette
che dalle autopsie traspare la presenza di lesioni particolari sui
corpi, non riconducibili a proiettili ordinari. Alcuni feriti presentano
fori che indicano come, colpiti dalle prime raffiche, siano poi stati
ulteriormente presi di mira dai soldati e bersagliati da distanza
ravvicinata. Furkan è uno di questi, sparato al viso da pochi metri. Da poco è stato rilasciato un resoconto di tutte le autopsie, in Inglese.
In esso è riportato anche come l’esercito israeliano abbia operato per
cancellare tracce dai cadaveri rendendo difficoltoso e vanificando
alcune possibilità dell’esame autoptico.

Salutiamo il medico e torniamo in albergo perché si avvicina l’ora della
partenza e dobbiamo ultimare i preparativi. Separare i materiali,
creare una copia delle ultime registrazioni, chiudere le valige. In taxi
ripensiamo alle persone colpite, e al fatto che tra di loro potevamo
esserci anche noi. Avevamo cercato più volte, inutilmente, di salire a
bordo della Marmara e dividerci: uno lì e uno sulla Sfendoni.

Se c’è un aspetto di questo conflitto che mi colpisce particolarmente,
ma che probabilmente è ormai comune a tutte le guerre ad alta o bassa
intensità, è l’uso massiccio dei media come arma. La lotta per il
controllo delle informazioni è decisiva, perché determina l’idea che il
mondo si farà dell’evento. Se non avessimo avuto una connessione
satellitare sulla Marmara, se alcuni di noi non fossero riusciti per vie
traverse a salvare del materiale, avremmo visto solo ciò che
l’aggressore avrebbe mostrato. E’ una guerra dell’informazione in cui
oltre alla verità, pagano un prezzo altissimo anche quei giornalisti che
prendono sul serio il loro ruolo di narratori e testimoni. Concludendo
questo scritto voglio ricordare due figure, una delle quali purtroppo
per me senza nome perché ho stupidamente dimenticato di segnarmelo.

La prima è Cevdet Kiliclar, giornalista turco. Stava riprendendo il
blitz con in mano la sua telecamera quando un soldato israeliano gli ha
piantato un proiettile in fronte, tra gli occhi, spappolandogli il
cervello e uccidendolo quasi sul colpo. La seconda persona è un
cameraman incontrato a Istanbul. Oggi indossa un tutore ortopedico che
gli avvolge l’avambraccio destro e termina con 5 fili metallici,
leggermente elastici, a cui sono attaccati altrettanti anelli di pelle.
Servono a tenere in sospensione le dita della mano. L’arto ha perso
quasi del tutto la sensibilità dopo che un proiettile gli ha trapassato
il braccio per il lungo mentre anch’esso filmava l’assalto. Dedico a
loro il presente lavoro e quanto stiamo producendo inerente al viaggio
della flottiglia.

01-03 agosto 2010
Manuel Zani
Questa voce è stata pubblicata in Notizie e contrassegnata con , , , . Contrassegna il permalink.