«L’altra Israele» protesta contro l’emendamento alla legge sulla cittadinanza che in futuro, non appena la Knesset l’avrà approvato, obbligherà i non ebrei richiedenti la cittadinanza a giurare fedeltà ad Israele come «Stato ebraico e democratico». Domenica sera 10 ottobre numerosi accademici, artisti e intellettuali israeliani hanno manifestato davanti all’Independence Hall di Tel Aviv per contestare «la continua erosione della democrazia israeliana». Tra i partecipanti l’anziano pacifista Uri Avneri e l’attrice Hanna Meron. I presenti hanno letto una «Dichiarazione di indipendenza dal fascismo» che afferma: «Uno Stato che impone una punizione a coloro le cui opinioni e credo non si allineano con il pensiero dell’autorità, smette di essere una democrazia e inizia a diventare uno Stato fascista». Gideon Levy, con un editoriale su Haaretz dal titolo «La Repubblica ebraica di Israele», ha ammonito la sua gente. «Ricordatevi questo giorno – ha scritto – da adesso in poi vivremo in un nuovo stato etnocratico, teocratico, nazionalista e razzista».Ma «l’altra Israele» è una minoranza esigua, che non rappresenta la maggioranza della popolazione che vira decisamente a destra. Un sondaggio rivela che in questo periodo sta crescendo impetuosamente il partito di estrema destra Yisrael Beitenu guidato dal ministro degli esteri Avigdor Lieberman, promotore di numerose proposte di legge di segno «anti-arabo».
Se elezioni politiche si svolgessero oggi Israel Beitenu riceverebbe 21 seggi sui 120 della Knesset, sei in più rispetto alle ultime elezioni politiche mentre il Likud riceverebbe 33 seggi, sei in più rispetto al voto del 2009. I laburisti crollano invece da 13 a nove seggi e Kadima, il maggior partito di opposizione, passa da 28 a 26 seggi. In totale i partiti di destra raccoglierebbero oggi assieme 73 deputati alla Knesset.
Mustafa Barghouthi, uno degli intellettuali palestinesi indipendenti, dice pubblicamente qual è il nodo politico di questi giorni. Bisogna dichiarare “immediatamente lo stato indipendente e democratico di Palestina” sui confini di tutti i territori occupati da Israele nel 1967 (dunque non solo Cisgiordania, ma Gaza e Gerusalemme est, tutti i territori che il diritto internazionale definisce occupati). Barghouthi, protagonista peraltro – tra 2006 e 2007 – della mediazione tra Fatah e Hamas che portò al breve governo di unità nazionale, non lega la proclamazione dello Stato di Palestina all’ultimo passo compiuto dal governo di Benjamin Netanyahu sulla presentazione di un progetto di legge sul giuramento di fedeltà allo “Stato ebraico e democratico” da parte dei cittadini non ebrei. Non è il giuramento di fedeltà il nodo della questione. E’ il negoziato su di un piede di parità. Un potenziale processo di pace si svolgerebbe cioè tra parti eguali.
La presenza dello Stato di Palestina cambierebbe profondamente le carte in tavola, in un negoziato. Non più, dunque, uno Stato d’Israele e una entità di puro carattere amministrativo come l’ANP seduti al tavolo, bensì due stati che devono regolare contese territoriali partendo da un confine riconosciuto dalla comunità internazionale, e cioè quello dell’armistizio del 1949. Israele diventerebbe potenza occupante su di un suolo sovrano, e le colonie delle città costruite sulla terra dello Stato palestinese. E da ultimo, la questione della riconciliazione tra Fatah e Hamas: Hamas si rifiuta di riconoscere Israele, ma da anni dichiara di poter riconoscere uno Stato palestinese sui confini del 1967, con Gerusalemme capitale e il diritto al ritorno dei profughi del 1948 e del 1967. Sembra una questione di lana caprina, e non lo è. Vista la situazione difficile in cui versano i negoziati (sospesi) tra Netanyahu e Abbas, e visti i contatti in corso sulla riconciliazione, l’ipotesi dello Stato palestinese potrebbe convenire a molti. E far superare un’impasse che dura – almeno con questi parametri – almeno dalla vittoria elettorale di Hamas del gennaio 2006.