Internazionalizzare la questione dei prigionieri palestinesi

Ameer Makhoul, prigioniero politico palestinese detenuto in un carcere israeliano dall’aprile 2010, spiega perché la questione dei prigionieri palestinesi deve essere affrontata dalla comunità internazionale.

Il successo dell’internazionalizzazione può essere misurato da quanto un argomento o un problema diventa una questione globale. Significa creare una situazione sul terreno che renda impossibile per la comunità internazionale continuare ad eludere la propria responsabilità o a essere complice di un potere dominante nell’usurpazione dei diritti della vittima. I meccanismi internazionali possono allora essere condotti sul tavolo al fine di sostenere i diritti della vittima e di far rispettare la legge al trasgressore.
In tali casi, la giustizia è l’arma più potente in mano alla vittima per controbilanciare il potere e la forza repressiva della fazione dominante – in questo caso, il regime razzista coloniale di Israele.

Ma c’è una regola base provata e riaffermata da ogni rivoluzione popolare e movimento di liberazione: non è sufficiente per un gruppo o un popolo vittima di ingiustizia guadagnarsi la solidarietà del mondo. Perché il mondo li sostenga, le vittime non devono soltanto essere consapevoli e abnegati ai propri diritti ma, più importante, devono resistere all’oppressione e all’oppressore. La resistenza delle vittime, la sfida e la lotta sono la chiave della trasformazione della simpatia internazionale in solidarietà, nel senso di effettiva azione politica con un orizzonte strategico.
L’internazionalizzazione si lega essenzialmente e primariamente all’attivazione e la sostenibilità della solidarietà popolare globale, così come all’azione di corpi internazionali ufficiali che si assumano le proprie responsabilità.

Un movimento di solidarietà energico e globale in tutto il mondo può fare molto nell’influenzare governi, legislature e media in Paesi e società ai quattro angoli del pianeta, e nel fare pressione nelle istituzioni internazionali ufficiali affinché promuovano cambiamenti politici su due fronti: nel sostenere e rafforzare le vittime di ingiustizie e le loro speranze di vedersi riconosciuti i propri diritti, attraverso una combinazione di lotta di liberazione e legalità internazionale; e nell’indebolire e isolare il colonizzatore oppressivo e razzista, sottoporlo a sanzioni e negare la sua legittimità con il fine ultimo di smantellare le sue strutture repressive.

La posizione ufficiale palestinese in merito al rilascio dei prigionieri politici nelle celle israeliane mina la loro causa, componente centrale della lotta di liberazione del nostro popolo. Essenzialmente, la politica ufficiale prevede che l’accordo di pace finale con Israele non sarà firmato fino a quando tutti i detenuti palestinesi saranno rilasciati. In pratica, è un modo per ritardare la liberazione dei prigionieri indefinitamente e per marginalizzare la questione all’interno dell’agenda palestinese. Liberare i prigionieri dovrebbe significare liberarli ora.
Israele ha fatto di tutto per spostare l’attenzione sul caso di uno dei suoi soldati di occupazione imprigionato da palestinesi per attirare l’interesse umanitario internazionale, e allo stesso tempo chiedeva al mondo di considerare e trattare i suoi 7mila prigionieri palestinesi come “terroristi”.
Ma perché il discorso politico palestinese si rifà a questa logica contorta? Perché il partito della giustizia, la vittima, ha bisogno di trovare giustificazioni per i palestinesi che difendono i propri diritti? Perché utilizzare un linguaggio apologetico? Quando è stata l’ultima volta che una voce ufficiale palestinese si è levata alle Nazioni Unite o all’Unione Europea – o anche alla Lega Araba – per difendere il diritto dei palestinesi e il loro dovere a resistere all’occupazione, alla colonizzazione e al trasferimento forzato, utilizzando tutti gli strumenti di lotta?

Con questa stessa mentalità recentemente è stato chiesto ad un funzionario dell’Autorità Palestinese di trattare la questione reciprocamente e di domandare che Israele riattivasse il comitato congiunto che si occupa del problema. Come può un rappresentante di un popolo che è completamente soggetto alla colonizzazione, il trasferimento e l’esilio accettare una qualsiasi equivalenza su questo piano tra l’oppressore aggressivo e occupante e le sue vittime? La posizione ufficiale palestinese sul piano internazionale è “condannare la violenza” e quindi denunciare gli atti di resistenza contro l’occupazione, mentre si collabora sempre di più con il sistema di sicurezza israeliano. Quale il messaggio che viene inviato ai prigionieri incarcerati nelle galere israeliane per decine di anni, che hanno preso parte alla lotta di liberazione e ora ne pagano il prezzo? Così, la politica ufficiale palestinese non nega il loro status di prigionieri della libertà, della liberazione nazionale, della coscienza e la giustizia?
Se il messaggio è volto sempre a guadagnarsi la popolarità internazionale e il sostegno ufficiale, deve essere chiaro e coerente. Ciò è assolutamente cruciale per l’internazionalizzazione. Le parole e le azioni delle autorità palestinesi devono essere in armonia con quelle del popolo, della società civile e dei movimenti di base e anche con il movimento di solidarietà internazionale.

È vitale per evitare la ripetizione della dolorosa esperienza della campagna nel Regno Unito del boicottaggio delle università israeliane come parte di un più vasto boicottaggio accademico e culturale di Israele. Quella campagna costituì un’escalation strategica e senza precedenti del ruolo e dell’effettività dei movimenti di solidarietà. Ma dopo qualche settimana dal lancio della campagna, l’Università Al Quds dell’Autorità Palestinese ad Abu Dis concluse un accordo di cooperazione con l’israeliana Università Ebraica di Gerusalemme. Una pugnalata palese alle spalle del movimento globale di solidarietà con il popolo palestinese.
Un’altra importante questione è quanta importanza l’AP e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina riconoscono nella realtà dei fatti alla questione dei prigionieri, all’interno della loro azione diplomatica internazionale e presso le Nazioni Unite, nei loro incontri con Israele e come priorità nazionale palestinese. È impossibile giustificare il loro fallimento nel porre questa come questione centrale nei loro dialoghi politici nel corso degli anni, una questione che non può essere ignorata e deve essere risolta come condizione necessaria ai progressi futuri. Gli accordi di scambio dei prigionieri non possono da soli risolvere il problema. Aspettare un accordo di pace promesso come soluzione magica è un esercizio futile. O trattare il rilascio dei prigionieri come responsabilità esclusiva del sistema legale israeliano. Il sistema giuridico di Israele è parte della struttura che sostiene e legittima l’occupazione e lo Stato razzista e ne lava i crimini.
Ma la questione dei prigionieri resta un elemento chiave del conflitto e il suo esito è determinato dall’equilibrio dei poteri. Le rivoluzioni arabe hanno sicuramente avuto un effetto decisivo sia nell’equilibrio dei poteri nella regione sia nella gestione del conflitto. In questo contesto, l’internazionalizzazione fornisce un modo di modificare le regole del gioco che hanno prevalso finora e di liberarsi dal loro controllo.

In alternativa, l’abbandono del proprio ruolo da parte della leadership ufficiale e il conseguente declino della lotta popolare lasciano i prigionieri con ben poche opzioni se non quella di iniziare uno sciopero della fame. Che non significa necessariamente ottenere guadagni nel breve termine né tantomeno far progredire la causa della loro liberazione. C’è bisogno di nuove forme di lotta da inventare dentro le prigioni, più legate alla più vasta lotta popolare e ai suoi obiettivi strategici.
C’è una vasta gamma di organizzazioni per i diritti umani e della società civile palestinesi, arabe e internazionali che sono credibili e competenti e che hanno lunghe e ricche esperienze nella difesa dei diritti dei palestinesi, compresa ovviamente la questione dei prigionieri. Le organizzazioni palestinesi possono collaborare con le loro controparti in tutto il mondo per favorire cambiamenti politici a favore dei diritti del popolo palestinese e per stabilire reti di relazioni.
I rappresentanti ufficiali del popolo palestinese devono inoltre fare di più per facilitare questo lavoro, incoraggiare i movimenti di base e fornire loro supporto ufficiale. Sono richieste decentralizzazione e complementarietà. Purtroppo, la politica e il comportamento ufficiali hanno troppo spesso ostacolato questo ufficioso lavoro della base e ci sono entrati in conflitto. Un esempio tra i più visibili è il caso della campagna globale e palestinese per il boicottaggio di Israele (Boycott, Divestment and Sanctions). La burocrazia palestinese vi si è opposta, giustificandosi con i negoziati all’epoca in corso con il governo di Ehud Olmert.
Il compito dell’internazionalizzazione dovrebbe essere affidato ad un Comitato di Coordinamento Nazionale, che includa i rappresentanti delle organizzazioni popolari e della società civile insieme a funzionari statali, sia dalla Palestina storica che dall’estero. Il ruolo di tutti i gruppi dovrebbe essere coordinato nella convinzione che la causa palestinese è indivisibile e allo stesso modo Israele è uno solo. In altre parole, l’occupazione della Cisgiordania e di Gaza, il regime razzista all’interno della Linea Verde e la pulizia etnica dei rifugiati sono tutti prodotti della natura coloniale dello Stato di Israele.

Nel processo di gestione del conflitto, ci sono delle questioni essenziali che non possono essere né accantonate né rinviate. Nessun negoziatore o funzionario palestinese ha il potere di sostituirli con altri temi, anche se i risultati non possono essere raggiunti subito.
Una rivalutazione complessiva palestinese e araba è necessaria alla strategia di negoziazione, scelta sulle basi delle soluzioni trovate e dell’effetto avuto sui diritti dei palestinesi e sulla lotta per ottenerli. Il disastroso effetto degli accordi di Oslo a questo proposito è diventato chiaro negli ultimi vent’anni. Attraverso la suddivisione dei diritti fondamentali dei palestinesi in componenti separate, tali diritti sono stati trasformati in ostaggi l’uno dell’altro e in ostaggi della contrattazione, per cui l’ottenimento di un “pacchetto di diritti” era subordinato alla concessione di un altro.

A livello internazionale, potrebbe sembrare a volte che i risultati diplomatici possono essere ottenuti dando priorità ad uno solo dei pacchetti di diritti fondamentali – o ad una questione sola, come la colonizzazione della Cisgiordania e di Gerusalemme – piuttosto che ad un altro. Ma è qui che si nasconde il rischio, sia in patria che all’estero, di abbandonare quei diritti che, per una qualsiasi ragione, l’attuale leadership palestinese non considera una priorità. Ad esempio, la campagna ufficiale palestinese diretta a focalizzare l’attenzione globale sulle colonie porta con sé il messaggio implicito, voluto o no, che liberare i prigionieri non è una priorità.
Non si è mai sentito nessun negoziatore palestinese minacciare di interrompere il dialogo con Israele fino a quando i prigionieri fossero stati liberati, o almeno fino a quando fosse discusso un calendario per la loro liberazione o, ancora, fino a quando la questione non fosse arrivata al Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ciò si deve alla volontà politica palestinese o alla riluttanza nel prendere una posizione all’interno dell’equilibrio di poteri regionale e internazionale. E ciò riafferma la disastrosa eredità degli accordi di Oslo, sia in termini di sostanza che di implementazione dei contenuti.

Tutte le questioni legate ai diritti dei palestinesi rimandate dagli accordi di Oslo non sono mai state trattate dopo e sembrano restare in sospeso all’infinito. Stessa situazione per la questione dei rifugiati e dei trasferimenti forzati e per Gerusalemme. Per non parlare della tacita accettazione da parte della leadership palestinese del fatto che i palestinesi ’48 siano un affare interno israeliano – una definizione che loro stessi, inutile dirlo, rigettano assolutamente con tutti i mezzi possibili.
Riguardo ai prigionieri, l’esperienza mostra come Israele non si attenga al suo principio dichiarato per cui non rilascerà mai detenuti che siano stati coinvolti in azioni in cui sono stati uccisi degli israeliani. Stessa situazione per il rifiuto israeliano a negoziare il rilascio dei palestinesi residenti a Gerusalemme e nella Palestina ’48. È l’equilibrio dei poteri che conta e non è sempre lo stesso. Può cambiare, spesso determinato dal livello della lotta popolare palestinese, dalla politica ufficiale palestinese e dalla volontà del popolo palestinese.
La causa della liberazione dei prigionieri richiede che la lotta venga combattuta su due fronti, dentro e fuori le mura delle prigioni.

Ameer Makhoul è uno dei leader della società civile palestinese e prigioniero politico nel carcere di Gilboa. Questo articolo è stato pubblicato da Electronic Intifada e Al Akhbar English.

(Fonte)

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