La rivoluzione imperfetta: il Movimento 15 Marzo un anno dopo

di Linah Alsaafin per Electronic Intifada
Traduzione a cura di Cecilia Dalla Negra

Il 17 febbraio 2011 un gruppo di giovani attivisti si è incontrato in un qualunque caffè di Ramallah per pianificare una rivoluzione. Qualcuno si conosceva già, altri non si erano mai visti. Si sono collegati via Skype con quattro attivisti di Gaza in un meeting che, inizialmente, si è concentrato sugli sforzi necessari per portare sui social media azioni concrete, con l’obiettivo di reindirizzare il corso palestinese verso la rivendicazione dei propri diritti dall’oppressore, ancora una volta.

Questa è stata la nascita del Movimento 15 Marzo – un movimento dalla vita breve – come è stato soprannominato dai media dopo l’evento che ha avuto luogo in quella data, lo scorso anno. Il Movimento faceva appello alla riconciliazione nazionale, usando il grido di battaglia “fine delle divisioni” tra Hamas e Fatah. Grandi manifestazioni si sono svolte a Gaza City come a Ramallah, dove i dimostranti sono stati dirottati dai sostenitori di Hamas  e Fatah o repressi dalle rispettive forze di sicurezza. La maggior parte di loro sono stati picchiati. Il movimento si è esaurito in tempi relativamente brevi e, ad un primo sguardo, sembra essere stato solo un altro capitolo – minore e fallimentare – nella storia delle fazioni palestinesi, dei gruppi giovanili e dei blocchi politici. Ma chi erano gli attivisti che hanno fatto appello per le proteste, e che cosa è stato davvero il 15 marzo?

Uscire dagli schemi

Prima delle rivoluzioni in Egitto e Tunisia, molti attivisti avevano pensato di organizzare un grande evento in un giorno particolare. Il feudo di Hamas nella Striscia di Gaza, e il controllo dell’Autorità Palestinese in West Bank hanno seriamente soffocato la libertà di espressione e ridotto i diritti individuali, creando un’atmosfera di tensione non diversa da quella di uno stato di polizia. Esprimersi apertamente – per quanto casualmente – contro le fazioni politiche potrebbe condurre ad arresti, soprusi, minacce. I giovani attivisti erano determinati a rompere gli schemi autocratici di governo delle loro stesse leadership, viste come un’altra faccia dell’occupazione israeliana.

Quando sono scoppiate le rivolte in Egitto e Tunisia, gli attivisti a Ramallah hanno organizzato piccole manifestazioni di solidarietà: i dimostranti sono stati picchiati dalle forze di sicurezza preventiva dell’Autorità Palestinese. Una protesta o una manifestazione non possono avere luogo in West Bank senza aver avuto l’approvazione o un ualche tipo di autorizzazione da parte dell’Autorità Palestinese. Parallelamente, su Facebook cominciavano ad apparire molte pagine contro la divisione tra Hamas e Fatah e contro l’occupazione israeliana, con decine di migliaia di sostenitori.

Ebaa Razeq, attivista di Gaza, è venuta a sapere dell’iniziativa attraverso blog e Facebook ancora prima che i suoi amici la invitassero a far parte del gruppo. “Hanno iniziato a lavorare rivolgendosi ad autisti, commercianti, famiglie, studenti, sindacati e associazioni”, ricorda. “Non si trattava di reclutare gruppi di ragazzi, ma di coinvolgere la popolazione: è una delle ragioni  per cui ho creduto nel Movimento”.

In un modo o nell’altro, la data stabilita per le proteste è stata quella il 15 marzo. I due gruppi principali con ruoli decisionali erano a Gaza City e Ramallah. Gli attivisti di Gaza hanno deciso di basare l’evento intorno alla fine delle divisioni tra Fatah e Hamas, questione che li danneggiava molto più di quanto non facesse con i palestinesi in West Bank.

Uno slogan superficiale?

Ad ogni modo, non tutti sono stati d’accordo sul fatto che porre fine alle divisioni fosse la priorità. Murad Jadallah, membro del gruppo giovanile Hirak Shababi al-Mustaquil (movimento giovanile indipendente) afferma che senza dubbio lo slogan “Il popolo vuole la fine delle divisioni”  fosse a dir poco superficiale. “Non lasciava intendere nessuna implicazione su quale fosse la ragione delle divisioni, che era il risultato dell’assenza di una strategia di resistenza unitaria e nazionale, e non il fatto che ci fosse un governo a Gaza e un altro in Cisgiordania. Ma allo stesso tempo era uno slogan capace di unire, facile da ripetere per le persone”.

L’attivista Fadi Quran ha contribuito a creare quello slogan, prendendo spunto dal famoso motto egiziano “Il popolo vuole la caduta del regime”, ritenendo che fosse una frase incisiva che i media locali avrebbero potuto riprendere. Il gruppo di Ramallah ha voluto concentrarsi su qualcosa che fosse unitario e indirizzato a tutti i palestinesi, perché, come spiega Jadallah, gli ultimi 20 anni di “processi di pace” hanno solidificato la realtà della divisione geografica e delle concessioni, lasciando fuori i rifugiati dal processo politico”. Dunque, è stata introdotta la richiesta di elezioni del Consiglio Nazionale Palestinese (CNP), stabilendo che ogni palestinese debba avere diritto di voto a prescindere da dove si trova. “Fare appello alle elezioni del CNP non è stato niente di nuovo”, spiega Jadallah. “Ne’ il gruppo Hirak Shababi ne’ altri lo hanno inventato: è fondamentalmente la traduzione del concetto politico introdotto all’inizio del 1990, ‘ Riorganizzare la casa palestinese’. Quel periodo storico ha dimostrato che la casa palestinese, l’OLP, non aveva fondamenta democratiche, dal momento che i meccanismi decisionali erano in mano ad un corpo esecutivo all’interno dell’OLP, incentrato su una base dittatoriale”.
Le dinamiche dello sciopero della fame
Due giorni dopo il 15 marzo, i giovani hanno iniziato uno sciopero della fame all’interno del sit in di al Manara square, nel centro cittadino di Ramallah. Gli attivisti avevano sentito dire che Fatah, insieme ad altri gruppi politici, pianificava di cooptare l’evento. Dunque era necessaria un’azione preventiva per rendere il messaggio delle elezioni del CNP più forte del mantra dei partiti. Maath Musleh è stato 21 giorni in sciopero della fame. Con lui inizialmente c’erano altre nove persone, ma molte di più dormivano in piazza. Qualcuno era iscritto a partiti politici, altri no. Anche in quell’occasione, sono stati attaccati dalle forze di sicurezza dell’ANP, che hanno distrutto le tende. Musleh , per via del suo sciopero della fame, ha acquisito autorità all’interno del Movimento, ma è rimasto determinato a non imporre alcun tipo di leadership strutturata. I manifestanti in sciopero della fame hanno avviato le proprie dinamiche politiche, avanzando due nuove richieste: il rilascio di tutti i prigionieri politici trattenuti da Hamas e Fatah, e la fine della guerra di propaganda portata avanti da entrambe le fazioni. “Qualcuno, nel Movimento 15 Marzo, era contrario al nostro sciopero della fame”, racconta Musleh. “Erano convinti che ci fossimo montati la testa”.
Altre tende sono state piantate nel centro di Nablus, Betlemme, Jenin e Gaza City. Ma la coordinazione tra gli attivisti è rimasta scarsa e frammentata. Fadi Quran ne attribuisce le ragioni a ciò che definisce “la tirannia dei gruppi completamente orizzontali”. “Non abbiamo avuto un chiaro processo di decision-making, che fondamentalmente ricadeva su coloro che erano più abili a portare avanti le proprie idee. In molti casi la responsabilità è ricaduta su di me, sfortunatamente. Ho imparato qualcosa”.
C’erano tre differenti forze a guidare il Movimento 15 marzo: quelli che facevano lo sciopero della fame, gli altri gruppi in diverse città, e il gruppo di Ramallah che si era composto di circa 30 attivisti. Il risultato è stato quello di accumulare richieste senza consultazioni precedenti, fattore che ha contribuito ad offuscare il messaggio principalem l’obiettivo che tutti avevano deciso di raggiungere: l’unità di tutti i palestinesi attraverso le elezioni del CNP.
“Abbiamo imparato che non possiamo mobilitare le persone semplicemente chiedendo loro di stare dalla nostra parte”, racconta Quran. “Dobbiamo presentarci, rendere pubblici i nostri progetti, spiegare per cosa ci battiamo, su cosa lavoriamo e cosa vogliamo ottenere. Queste cose non erano tanto chiare neanche alle persone all’interno del gruppo, come potevamo sperare di coinvolgere i giovani in qualcosa che ancora non era chiaro neanche a noi?”
Il circo mediatico
L’accordo di riconciliazione tra Hamas e Fatah è stato firmato l’11 maggio: un gesto vuoto che non ha cambiato niente. Prima di questo, cinque attivisti del 15 Marzo si sono incontrati con il presidente dell’Autorità Palestinese, Mahmoud Abbas. Appena entrati nel suo ufficio hanno trovato ad attenderli un circo mediatico. Gli attivisti hanno spiegato che non avrebbero parlato di fronte alle telecamere, bloccando così lo slancio del media, ma l’Autorità Palestinese ha continuato a creare divisioni in seguito, dicendo ai manifestanti di al Manara square che gli attivisti che avevano incontrato Abbas si erano definiti “leader del movimento”.
Nessuno di loro, ad ogni modo, si aspettava che l’incontro con Abbas avrebbe cambiato qualcosa. Si sono presentati con le loro richieste: elezioni del CNP, fine della propaganda mediatica, rilascio dei prigionieri politici, di cui avevano una lista. Abbas è stato irrispettoso nelle sue risposte, sostenendo con leggerezza che l’Autorità Palestinese non trattiene prigionieri politici. Niente da aggiungere, l’incontro è stato improduttivo.

La mancanza di strategia, come stavamo dicendo, si è tradotta nella disintegrazione delle relazioni all’interno del Movimento e tra gli altri gruppi. Sfiducia, frustrazione, malfunzionamento delle comunicazioni, alcuni attivisti che prendevano decisioni a nome del gruppo senza informare gli altri in anticipo, sono stati l’evidente risultato dell’assenza di principi e valori saldamente stabiliti sin dal principio.

Mantenere lo slancio

“Siamo stati fortunati che sia arrivata la Giornata della Terra (il 30 Marzo, ndr)”, riflette Musleh. “Poi abbiamo avuto proteste nella Giornata dei Prigionieri, il 17 aprile, che ha mantenuto vivo lo slancio. Ogni venerdì avremmo voluto organizzato una delegazione a Nabi Saleh, ma la mobilitazione era inesistente”. Gli attivisti di Hirak Shababi sapevano che Manara square non si sarebbe trasformata in una piazza Tahrir in una notte. Le tensioni tra il 15 Marzo e Hirak Shababi si sono accumulate: l’accusa formale era che quest’ultimo fosse schierato partiticamente, mettendo in dubbio le sue motivazioni. “Hirak Shababi ha due caratteristiche che spiegano perché un anno dopo noi siamo ancora in attività mentre il Movimento 15 Marzo è sparito”, spiega Jadallah. “Storicamente, i partiti politici palestinesi derivano la loro legittimazione e credibilità dall’affiliazione a una parte o a una fazione, e attraverso l’esperienza di essere stati perseguitati da Israele. Da parte del Movimento 15 Marzo c’era inoltre il timore di essere inghiottiti da Hirak Shababi, e questo ha offuscato le loro capacità di leadership, basate sulla perfetta padronanza della lingua inglese e sulla familiarità con i social media”.

Un anno dopo, la situazione a Gaza resta terribile. La libertà di espressione è ancora negata, secondo il parere di Ebaa Razeq: “Oltre a ricevere regolarmente citazioni per interrogatori, attivisti come Asmaa al Ghoul hanno subito molte minacce di morte per aver scritto articoli critici sulla situazione attuale. Mahmoud Abu Rahma (del gruppo per i Diritti Umani Al-Mezan, ndr) è stato accoltellato da uomini mascherati per aver criticato la resistenza. È molto pericoloso scrivere mentre si è Gaza”.

Abbattere il muro della paura

In giro per la West Bank l’umore è più ottimistico. Il numero di attivisti è cresciuto, e il Movimento 15 Marzo ha infranto il muro della paura che portava le persone a pensarci due volte prima di manifestare per strada. Jadallah ha spiegato come il bisogno di continuo coordinamento ha portato ad altre iniziative, come “Palestinesi per la Dignità” (contro i negoziati tra Israele e l’Autorità Palestinese).

L’ondata di proteste non ha riguardato solo i Territori Occupati. Il 5 giugno (Giorno della Naksa) le manifestazioni per ricordare l’occupazione israeliana del ’67 di West Bank e Gaza sono state coordinate con i rifugiati palestinesi in Siria, Libano e Giordania, con qualche manifestante che è riuscito ad attraversare i confini della Palestina. Più tardi nel corso dell’anno, ad Haifa, un gruppo con numerosi sostenitori ha promulgato l’appello “Hungry for Freedom”, nato dallo sciopero della fame dei prigionieri palestinesi di settembre e ottobre. “Il giusto messaggio dovrebbe essere diretto ai luoghi appropriati”, sostiene Jadallah. “Abbiamo bisogno di recuperare la situazione e confrontarci direttamente con l’occupazione, perché questo, come l’unità di tutti i palestinesi, costerà cara ad Israele”.

“Esiste un’identità collettiva che abbiamo sviluppato”, afferma Quran. “Questa identità forse può sembrare disgregata in apparenza, ma nel suo nucleo più profondo è un’entità collettiva di giovani che non sono d’accordo con molte cose, ma si riconoscono in valori molto più essenziali”. La questione è come preservarla. In seguito al suo recente arresto, mentre partecipava alla terza giornata globale “Open Shuhada Street” a Hebron, i soldati israeliani lo hanno interrogato su come vengono coordinate le manifestazioni di massa. “So che qualcosa è giusto quando gli israeliani ne sono preoccupati”, dice.
Indipendentemente da tutte le accuse di essere stato un fallimento, il Movimento 15 Marzo è stato capace di riavvicinare tutti i palestinesi alla causa. L’anno passato ha portato un processo continuo di sperimentazione, sempre soggetto ad adattamento ed evoluzione. La strada è divenuta un luogo di espressione degli interessi popolari, e la comunità organizzandosi ha costruito consapevolezza e ha iniettato nella società palestinese lo spirito di volontariato e resistenza che le politiche di state-building di Salam Fayyad hanno cercato di corrodere. Pur con tutti i tentativi e le imperfezioni della rivoluzione, i giovani palestinesi ci stanno riportando sulla strada della liberazione.

*Linah Alsaafin è laureata alla Birzeit University in Cisgiordania. Nata in Galles, è cresciuta tra Inghilterra, Stati Uniti e Palestina. Il suo sito web è lifeonbirzeitcampus.blogspot.com

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