Strada di Gaza macchiata di sangue

di Chris Hedges per truthdig

Traduzione di Paola Cantarutto per medioriente.net 

 

Strada di Gaza macchiata di sangue

L'acqua si mescola al sangue in una strada della cittadina di Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza, in questa foto d'archivio dello 8 novembre 2006. Le bombe dai carri armati sono finite in un quartiere abitato, uccidendo, secondo i testimoni ed il personale ospedaliero, almeno 18 persone addormentate, di cui 8 minorenni. Israele ha passato gli ultimi cinque mesi a scatenare missili, elicotteri d'attacco ed aerei da guerra sui tuguri fittamente stipati della Striscia di Gaza. Il suo esercito ha compiuto numerosi incursioni mortali, uccidendo 500 persone, quasi tutte civili, e ferendone altre 1.600. Israele ha arrestato nelle retate centinaia di palestinesi, distrutto l'infrastruttura di Gaza, compresa la rete elettrica, strade e ponti principali, portato avanti enormi confische di terreni, demolito case, precipitato famiglie in una crisi che è stata causa di miseria e malnutrizione diffuse.
La stessa società civile – ciò che pare costituire parte del piano israeliano – si sfilaccia. Le fazionidi Hamas e Fatah combattono nelle strade, malgrado un tenue cessate-il-fuoco, minacciando una guerra civile. Ed il movimento palestinese al governo, Hamas, ha annunciato che boicotterà che il Presidente dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas ha precocemente indetto, con la benedizionedell'Occidente, nel tentativo di eliminare Hamas medesimo dalle posizioni di potere. (Ricordiamo che questo, malgrado le sue ripugnanti politiche, era stato democraticamente eletto). Negli ultimi giorni, gruppi armati fedeli ad Abbas si sono impadroniti di ministeri gestiti da Hamas, con qualcosa che somiglia ad un putsch.

La maggior parte degli americani, tuttavia, non riesce a divenire consapevole della desolata realtà di Gaza; quando si accorgono del conflitto israeliano e palestinese, preferiscono dibattere il valore del termine “apartheid” nel nuovo libro dell'ex Presidente Jimmy Carter, “Palestine: Peace Not Apartheid.” Che la maggior parte degli americani non sia a conoscenza della catastrofica crisi umanitaria di cui sono tanto responsabili, avendo contribuito a crearla, è un triste indice della mancanza di spina dorsale della stampa USA e della timidezza dell'opposizione democratica. I palestinesi non solo muoiono, con gli alberi di olivo sradicati, i campi coltivati e le case distrutte, le falde idriche confiscate, ma spesso non possono neppure spostarsi, per le “chiusure” israeliane, che rendono quasi impossibili i compiti fondamentali, come comprare cibo e andare in ospedale.
Questi palestinesi, dopo decenni di repressione, non possono tornare alla terra da cui sono stati espulsi. I più di 140 voti ONU di condanna ad Israele e le due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza – ad entrambe gli Stati Uniti hanno opposto il veto – sono allegramente ignorati. C'è da meravigliarsi che i palestinesi soffocati si ribellino, mentre i muri si chiudono intorno a loro, mentre i loro bambini fanno la fame, mentre gli israeliani aumentano la violenza?

I palestinesi a Gaza vivono rinchiusi in un ghetto squallido e gremito, circondato dall'esercito israeliano e da una massiccia recinzione elettrica; impossibilitati ad uscire o ad entrare nella Striscia, sono sottoposti ad attacchi quotidiani. Il termine “apartheid”, vista la violenza senza freni usata contro i palestinesi, è tiepido. Questo è più dell'apartheid. I tentativi concertati di Israele di interrompere l'ordine e la legalità, di nutrire il caos ed il dilagare della miseria, sono in pubblica mostra nelle strade della Città di Gaza, dove si passa davanti alle macerie dei ministeri palestinesi degli Interni, degli Affari Esteri e dell'Economia Nazionale, dell'ufficio del primo ministro e di diversi edifici scolastici, bombardati dai jet israeliani. La centrale elettrica, che forniva alla Striscia il 45 per cento dell'elettricità, è stata eliminata; persino le rudimentali reti elettriche ed i trasmettitori rimanenti sono stati più volte bombardati. Sei ponti di collegamento fra la Città di Gaza ed il centro della Striscia sono stati fatti saltare; le arterie principali sono cancellate da crateri. E la Cisgiordania sta rapidamente precipitando in una crisi che ha le medesime proporzioni. Giustapporre quel che avviene a Gaza con quanto si dibatte alla radio e alla televisione USA circa un libro che è poco più di un'introduzione di base al conflitto rinforza l'idea che degli americani nutrono la maggior parte di coloro che stanno al di fuori dei nostri confini – e cioè che le nostre conoscenze siano distorte e bizzarre, create da noi stessi medesimi.

Cosa credono di guadagnare Israele e Washington, trasformando Gaza e la Cisgiordania in una versione in miniatura dell'Iraq? Come pensano che rispondano persone disperate, private di fiducia, dignità, possibilità di guadagno, sotto gli attacchi di uno degli eserciti tecnologicamente più avanzati del pianeta? Pensano che creare ai palestinesi un incubo degno di Hobbes indebolisca il terrorismo, freni gli attacchi suicidi ed alimenti la pace? Non vedono che il resto del Medio Oriente osserva il massacro con orrore e collera – che lì i giovani, uomini e donne, adirati e privi di diritti, sono decisi a vincere i sentimenti di impotenza e di umiliazione, persino a costo della vita?

E forse in realtà vedono e comprendono tutto ciò. Israele e Washington probabilmente capiscono il valore di questa repressione per il reclutamento di militanti islamici. Ma questi attacchi di Israele, malgrado la rabbia e la violenza che generano contro gli israeliani e contro di noi, creano anche condizioni tanto intollerabili che i palestinesi non possono più vivere nella loro terra. Più di 160.000 dipendenti pubblici non ricevono integralmente i salari da quasi nove mesi. Con le famiglie che mantengono, questi rappresentano più di un milione di abitanti. E un rapporto delle Nazioni Unite afferma che più di due terzi dei palestinesi ora vivono al di sotto della soglia di miseria. Più del 50 per cento sono disoccupati. Il Ministero palestinese degli Esteri comunica che negli ultimi quattro mesi 10.000 persone sono emigrate, e che altre 50.000 hanno presentato domanda per partire.

Il governo israeliano, a cui Washington non pone alcun freno, benché il Gruppo di Studio sull'Iraq riporti la raccomandazione di far risuscitare dai morti il processo di pace, ha ricevuto il permesso morale dell'amministrazion e Bush di portare avanti ciò che in Israele si chiama eufemisticamente “transfer”, e in altre parti del mondo pulizia etnica. Di fronte ad una bomba demografica ad orologeria, sapendo che nel 2002 gli ebrei costituiranno solo dal 40 al 46 per cento della popolazione totale di Israele, gli architetti del transfer, che una volta avevano nella società israeliana uno status pari al Ku Klux Klan, si sono fatti strada fino alle posizioni governative di potere.

Sospetto che Washington e Israele conoscano i costi di questa repressione. Ma comincia a sembrare che lo accettino – come il prezzo per liberarsi dei palestinesi.
Il primo ministro Ehud Olmert ha installato nel proprio governo un politico che chiede apertamente l'espulsione di circa 1,3 milioni di arabi israeliani che vivono in Israele. Il partito di Avigdor Lieberman, “Israele è la nostra casa”, che fa parte della coalizione governativa di Olmert, propone il transfer involontario in una regione abitata soprattutto da cittadini arabi di Israele, trasferendoli ad un futuro stato palestinese che comprenderebbe Gaza, parti della Cisgiordania ed una piccola fetta della parte nord di Israele. Tutti i cittadini arabi israeliani che continuassero a risiedere nel territorio del transfer perderebbero automaticamente la cittadinanza, a meno di non giurare fedeltà allo stato ed ai suoi simboli ebraici. L'inclusione di Lieberman, il David Duke di Israele, nel gabinetto, indica alla maggior parte dei palestinesi che il peggio deve ancora venire.

Il dibattito sul libro di Jimmy Carter, che rende noti un buon numero di miti israeliani su Israele medesimo, e che annuncia una realtà riconosciuta persino dalla maggior parte dei suoi cittadini, manca il bersaglio. Il problema non è se Israele pratichi l'apartheid. Per la maggior parte dei palestinesi, l'apartheid è un bel sogno. Il terribile problema è piuttosto se Israele sia capace di mettere in atto una politica così draconiana e crudele da cancellare una comunità che è vissuta per secoli in questa terra. Vi sono altri termini, molto più gravi, per descrivere quel che avviene in Palestina. A ripeterli, si rabbrividisce. Ma, senza controlli e senza limiti, l'attuale ondata di violenza e di maltrattamenti inflitta ai palestinesi risuonerà nei percorsi della storia come uno dei più grandi errori morali e tattici della prima parte di questo secolo – un errore che ricadrà su Israele e su di noi come un boomerang, portando sulla nostra soglia di casa il male che abbiamo permesso fosse scatenato sulle strette stradine ed i campi profughi a Gaza. Quando era solo apartheid, qualche speranza l'avevamo ancora.

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