Gli aiuti allo sviluppo contribuiscono a mantenere i palestinesi in gabbia

Scegliamo di tradurre e dare visibilità a questo articolo perchè sottolinea sinteticamente alcuni elementi utili per capire quali forme di potere, interne ed esterne alla Palestina, agiscono nel mantenimento di una condizione subordinata e schiacciata della popolazione palestinese.  Gli aiuti internazionali come strumento per cristallizzare l’eterno sfruttamento mascherando il progetto coloniale israeliano come “umano”, rendendolo “soft” e “silenzioso”. Un’analisi breve ma utile per una riflessione interna tra chi vuole animare percorsi di solidarietà dal basso tra realtà in lotta.

Charlotte Silver per The Electronic Intifada – 16 agosto 2011

“Israele ci tiene sotto assedio, ci confina in cantoni – in gabbie – e la comunità internazionale ci dà da mangiare all’interno di queste gabbie. Questo certamente non è sviluppo, perché non fa che alimentare il progetto coloniale di Israele, la pulizia etnica e l’espropriazione.” Così Samia Botmeh dal suo ufficio nel Centro per gli Studi sullo Sviluppo (CDS – Center for Development Studies) all’università di Birzeit, vicino a Ramallah, nella West Bank occupata.

Nonostante le imponenti somme in aiuti internazionali che sono state investite in West Bank, la capacità produttiva dell’economia palestinese – misurata sull’andamento dei settori agricolo e manifatturiero – è ridotta alla metà rispetto al 1994, e rappresenta non più del 12% di occupazione. Mentre la Banca Mondiale e l’Autorità Palestinese (AP) vantano una crescita del Pil dell’8%, il reddito reale pro capite è più basso dell’8.4% rispetto al 1999: il che significa che la crescita del Pil non è significativa per conoscere il reddito del palestinese medio.

L’Egitto rappresenta in questo senso un valido termine di paragone. Due decenni di serie riforme neo-liberiste hanno prodotto una crescita del Pil che venne apprezzata in maniera analoga dal Fondo Monetario Internazionale: fra il 2006 e il 2008 il Pil crebbe del 7%, con un picco di crescita del 4.6% nel solo 2009. Ad ogni modo, come è stato evidentemente dimostrato a fine gennaio [quest’anno], la crescita del Pil nazionale non proveniva dalla maggioranza delle persone: in realtà la disoccupazione era aumentata ed il 40% della popolazione viveva con meno di 2 dollari al giorno.

Con il precedente rappresentante del FMI Salam Fayyad, in carica dal 2007, l’AP aveva adottato la strategia della “buona governance” neo-liberista come struttura per il progetto di costruzione di uno stato. Come altri stati post-coloniali hanno fatto in passato, l’AP ha cercato di creare un ambiente che fosse vantaggioso per un efficiente e libero scambio delle merci privatizzando i servizi pubblici, valorizzando i diritti sulla proprietà privata e riducendo la corruzione. Questa agenda – la costruzione di uno stato mediante le politiche neo-liberali – è apertamente illustrata all’interno di un programma dell’AP intitolato “Mettere fine all’occupazione, costituire uno stato” (“Ending the Occupation, Establishing a State”).

Come sottolineato durante una lezione a Ramallah lo scorso inverno dal professor Mustaq H. Khan, docente di economia alla London’s School of Oriental and African Studies, l’introduzione di aiuti allo sviluppo in Palestina ha arricchito in maniera ingannevole il programma di buona governance dell’AP, portando osservatori e promotori come FMI e Banca Mondiale ad attribuire l’aumento del Pil ad una vincente economia di mercato (“Strategie di costruzione di uno stato post-Oslo e limitazione di tali strategie”, 1 dicembre 2010 [pdf]).

Esiste ancora un forte contrasto fra il percepito miglioramento dell’economia palestinese e le reali condizioni di vita della maggioranza dei palestinesi. Gli aiuti allo sviluppo – che costituiscono circa il 40% del Pil palestinese – hanno contribuito ad oscurare la realtà della situazione economica e, in alcuni casi, ad ostacolare la lotta per la liberazione della Palestina.

Nel giugno 2011 all’università di Birzeit si è tenuta una conferenza in cui attivisti/e ed accademici/che hanno dialogato con finanziatori e rappresentanti dell’AP in merito agli insuccessi dello “sviluppo”, oltre che in merito al complesso ruolo che gli aiuti internazionali giocano all’interno del movimento di liberazione della Palestina.

“Il sistema degli aiuti allo sviluppo è estremamente problematico e poco realistico”, dichiara Samia Botmeh ad Electronic Intifada. Il sistema in esame era l’Analisi per l’elaborazione di un Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo delle Zone di Conflitto (CDA), il cui obiettivo è quello di ottimizzare l’impatto degli aiuti allo sviluppo nelle zone di conflitto.

Botmeh aggiunge che l’attuale sistema internazionale per l’assegnazione degli aiuti alla West Bank tratta la regione sotto occupazione israeliana come zona di conflitto, o come zona post-coloniale. “Questo non è affatto realistico, perché non ci troviamo in un contesto di conflitto: ci troviamo all’interno di un processo di colonizzazione”.

La conferenza ha avuto luogo dopo la conclusione, da parte del CDS dell’università, di un progetto commissionato dal Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (United Nations Development Program) per individuare le alternative più efficaci a cui destinare i finanziamenti mirati allo sviluppo nella West Bank occupata e nella Striscia di Gaza, nel contesto dell’ininterrotta occupazione israeliana.

Poiché la struttura del CDA intende implementare i progetti finalizzati allo “sviluppo” senza assumere alcuna posizione politica, lo studio ha evidenziato come esso affermi, in maniera implicita, che entrambe le parti hanno un motivo per scendere a compromessi. Questo approccio radicalmente scorretto rifiuta di riconoscere – e quindi di combattere – il forte squilibrio di potere che permette ad Israele di rimanere irremovibile.

Considerando come la riassegnazione dei finanziamenti non significherebbe comunque affrontare i principali ostacoli all’autodeterminazione economica tramite lo sviluppo in Palestina, il centro ha elaborato proposte su che cosa dovrebbe essere lo sviluppo nel contesto di un processo di colonizzazione attiva. “Lo sviluppo dovrebbe significare ben più che aiutare le persone a sopravvivere; dovrebbe voler dire porre fine all’occupazione” spiega Botmeh.

La critica del Centro per gli Studi sullo Sviluppo mostra quanto gli aiuti internazionali falliscano nel tentativo di conquistare qualcosa di tangibile per i palestinesi, e come – cosa ancora più inquietante – favorisca anzi l’occupazione israeliana e l’ulteriore annessione di territori.

Lo sviluppo limitato alla “costruzione di uno stato”

Dopo l’applicazione delle politiche stabilite dagli Accordi di Oslo, firmati da Israele e dall’Organizzazione per la Liberazione della Palestina nella metà degli anni ‘90, i finanziamenti internazionali alla Palestina presero la direzione della cooperazione e dello sviluppo. In precedenza gli aiuti erano destinati a scopi “umanitari”, come operazioni delle Nazioni Unite e come beneficenza. Con la costituzione dell’Autorità Palestinese come governo di transizione, gli aiuti allo sviluppo erano apparentemente concepiti per promuovere un’economia indipendente che avrebbe favorito una transizione senza intoppi verso la costituzione di uno stato palestinese.

Dopo 18 anni di apparente processo di pace – in cui la lotta per la liberazione della Palestina è stata ridotta ad un progetto di “costruzione di uno stato” dall’AP e da Israele – le condizioni di vita dei palestinesi sono peggiorate, mentre la disuguaglianza è aumentata.

Botmeh denuncia come alla base di tali aiuti allo sviluppo stia la convinzione che questi vengano destinati ad uno stato post-coloniale, e che Israele abbia l’intenzione di ritirarsi dalla West Bank e dalla Striscia di Gaza. Tali ipotesi, che si distaccano spudoratamente dalla realtà politica, hanno fatto sì che gli aiuti internazionali rafforzassero il progetto coloniale israeliano, mediante la continua frammentazione della contiguità territoriale palestinese e il progressivo spopolamento dell’area C – oltre il 60% della West Bank compresa Gerusalemme Est, che si trova sotto totale controllo militare israeliano.

Nel periodo degli accordi di Oslo la West Bank occupata e la Striscia di Gaza vennero suddivise in area A, B e C, l’ultima delle quali è amministrata e controllata dal governo israeliano e dal suo potere militare. Israele ha dichiarato i tre quarti della zona “aree militari chiuse” o riserve naturali, motivo per cui sono zone off-limits per i palestinesi. Circa 40000 palestinesi vivono nell’area C.

Il termine fissato nel 1999 per la fine della stratificazione geografica in zone A, B e C è scaduto già da un po’. Lungi dall’assistere alla costruzione di uno stato plausibile, gli aiuti allo sviluppo sono serviti a radicare la partizione del territorio.

Peter Lundberg, rappresentante dell’Agenzia Svedese di Cooperazione per lo Sviluppo Internazionale, conferma l’esistenza di tali criticità nell’attuale paradigma per lo sviluppo in Palestina. Parlando dalla prospettiva di un donatore internazionale, Lundberg critica aspramente la complicità del sistema di aiuti allo sviluppo nel processo di frammentazione della popolazione palestinese, che lavora solamente sull’area A a causa delle restrizioni imposte da Israele sull’area C.

“I donatori e l’AP si sono concentrati troppo sulla costruzione di uno stato, che certo è una questione importante, ma in questo modo perderanno significativi pezzi di territorio”. Continua Lundberg: “Lo sviluppo dovrebbe permettere ai palestinesi di restare nella propria terra; in troppi hanno lasciato [la propria terra nel] l’area C”.

Poiché incrementare i progetti sull’area C controllata da Israele è gravoso dal punto di vista logistico e in molti casi impossibile, i donatori di fondi tendono a finanziare progetti destinati all’area A.

Secondo le statistiche di Lundberg, si è dato un esodo di palestinesi dall’area C prevalentemente dovuto alle condizioni di vita impossibili create da Israele, ed alla natura predatoria delle colonie circostanti. Israele non permette alle comunità [palestinesi] di collegarsi a fonti d’acqua o di elettricità e nega la quasi totalità dei permessi richiesti per costruire, determinando in questo modo la distruzione degli impianti di raccolta di acqua, di case e scuole. In contrasto con tale situazione, alle colonie insediate a fianco dei villaggi palestinesi vengono fornite acqua corrente, elettricità, strade ed infrastrutture.

Nel 1967 circa 200 mila palestinesi vivevano nella Valle del Giordano, oggi classificata come area C, esclusa la città palestinese di Gerico. Oggi, secondo le statistiche dell’agenzia di aiuti internazionali Save the Children, ci vivono solo 56000 persone – di cui 40000 nella città di Gerico, area A.

La devastante realtà che queste statistiche rivelano è che i donatori di fondi si sono resi complici di Israele aiutandolo nel suo piano di frammentare la West Bank in cantoni, in quel 18% di territorio che comprende l’area A. In questo modo essi hanno contribuito alla resa della maggior parte del territorio e dell’agricoltura della West Bank – che potrebbero rappresentare la base di un’economia e di uno stato palestinese davvero autosufficiente – al controllo israeliano.

Il neoliberismo mina il diritto dei palestinesi all’autodeterminazione

Raja Khalidi, eminente economista della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), ha scritto che le iniziative per lo sviluppo si stanno realizzando all’interno dell’area territoriale designata da Banca Mondiale, Unione Europea, FMI e Usa per espandere il progetto neo-liberista (si veda “Neoliberismo come liberazione: il programma di fondazione dello stato ed il rinnovamento del movimento nazionale palestinese” dal Journal of Palestine Studies, vol. 40 n. 2, inverno 2011).

Nel programma neoliberista dell’AP – così come illustrato nel “Piano per le riforme e lo sviluppo della Palestina” del 2008-’10 e in “Mettere fine all’occupazione, costruire uno stato” – la crescita economica viene utilizzata come consolazione all’occupazione, piuttosto che come strategia per resistere ad essa.

Nel suo intervento alla conferenza Khalidi ha sottolineato l’assurdità di tale agenda nel contesto di un’occupazione che determina sostanzialmente l’economia palestinese. “Negli ultimi tre anni l’AP si è impegnata nell’abbattere gli ostacoli interni alla costruzione di uno stato, ma non ha una struttura in grado di affrontare gli ostacoli esterni.”

Inoltre, senza sovranità l’autentica crescita economica è irraggiungibile. Khalidi ha spiegato come l’AP sia non solo incapace di rispondere alle aggressive politiche coloniali israeliane, ma anche come non abbia alcuna capacità di controllo sulle politiche marco-economiche palestinesi, come ad esempio la valuta o il controllo sui tassi di interesse e di scambio.

Gli aiuti allo sviluppo sono stati per molto tempo criticati per via del supporto – seppur involontario – che forniscono all’occupazione, riducendone l’impatto umanitario e rendendola dunque più “accettabile”. Omar Barghouti, figura di spicco del movimento per il boicottaggio, disinvestimento e sanzioni (BDS), ha svelato la natura per nulla ingenua   degli aiuti internazionali allo sviluppo.

“Lo sviluppo trasuda complicità con il colonialismo: è intenzionale e complice; l’ignoranza non può essere una scusa” ha detto alla conferenza.

Barghouti ha mostrato con vari esempi come molti paesi stiano donando soldi alla causa dello sviluppo in Palestina mentre stanno supportando, allo stesso tempo, progetti o aziende che rappresentano una reale minaccia per la sovranità palestinese.

Veolia, un’azienda di trasporti francese che secondo Barghouti è per la maggior parte di proprietà statale, sta attualmente lavorando alla costruzione del nuovo sistema di tramvia a Gerusalemme. La tramvia a Gerusalemme connette Gerusalemme Ovest con gli insediamenti illegali dei coloni nella Gerusalemme Est occupata. Nonostante la pressione su Veolia, mirata a farla ritirare dal progetto della tramvia – parte di una campagna BDS mondiale che è costata all’azienda fino a 10 miliardi di dollari, secondo Barghouti – l’azienda, e per estensione la Francia hanno tenuto ben stretto il proprio contratto con Israele.

Riportare la lotta di classe alla lotta per la liberazione nazionale

Adam Hanieh, docente di studi dello sviluppo alla School of Oriental and African Studies, colloca gli aiuti internazionali all’interno del progetto di colonizzazione israeliano mediante la sistematica frammentazione della popolazione e della nazione palestinesi. Nella sua lezione a Birzeit Hanieh ha sottolineato l’importanza della lotta di classe per puntare all’obiettivo della liberazione nazionale, ed ha indicato gli aiuti internazionali come elemento che agisce contro l’unità palestinese, dividendo per ricchezza o classe sociale una popolazione altrimenti unita contro l’occupazione.

“Sessantatre anni di colonizzazione hanno provocato divisioni, frammentazioni e fratture all’interno della popolazione palestinese. Lo sviluppo deve confrontarsi con questa frammentazione, non alimentarla” spiega Hanieh al proprio pubblico.

Illustrando come il neoliberismo ha incoraggiato la nozione che le soluzioni ai problemi siano individuali e non collettive, Hanieh sottolinea come gran parte dello “sviluppo” che prolifera all’interno della West Bank favorisca in realtà l’economia israeliana. Ad esempio, la cultura del consumo all’interno di caffè e ristoranti che stanno fiorendo a Ramallah è prevalentemente figlia di tali aiuti allo sviluppo, e a sua volta sostiene l’importazione di prodotti israeliani. Purtroppo questa nuova classe di consumatori, alimentata dai finanziamenti internazionali, rappresenta un ulteriore strato isolato della società palestinese.

Tutto questo va avanti sullo sfondo delle rivolte popolari che hanno scosso molte regioni del mondo arabo scagliandosi, fra le altre cose, contro le politiche neo-liberiste. Queste rivolte rappresentano un modello per come sono riuscite a cacciare i dittatori scuotendo l’attuale ordine mondiale, e dimostrano l’illuminante potenziale della lotta di classe.

Se i programmi per gli aiuti allo sviluppo avessero come principale obiettivo la conquista della libertà per i palestinesi – piuttosto che l’instaurazione di uno stato neo-liberista – allora potrebbero cominciare a contrastare il processo di espropriazione e colonizzazione che dura da 63 anni. Altrimenti non faranno altro che offrire supporto a quel processo.

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